La crisi pagata dai disabili

Alessandro (tutti i nomi qui di seguito sono di fantasia; le storie invece sono vere) ha 7 anni e un deficit importante. Quando ha lo stimolo di fare la pipì, non se ne accorge. Naturalmente sotto i vestiti indossa un pannolone, ma ogni tanto bisogna cambiarlo.

Angelica ha 16 anni, frequenta una scuola superiore di Napoli. Ha un ritardo cognitivo grave, quando ha il ciclo mestruale non si accorge di sporcarsi: sua madre va in classe, l’accompagna in bagno e l’aiuta a cambiarsi l’assorbente. Questo è possibile perché la mamma non lavora. Ma se per caso si prende un’influenza, Angelica resta a casa da scuola: sua madre le vuole risparmiare l’umiliazione di andare in giro con gli abiti macchiati.

Matteo, come tutti i bambini di otto anni, durante la ricreazione vorrebbe mangiare la merenda. Da solo non ci riesce: nessuno lo aiuta a mangiare.

Inizia l’anno scolastico 2012-2013, ecco i numeri che ti accolgono sul sito dell’associazione Tutti a scuola: 215.000 bambini disabili; 65.000 insegnanti di sostegno in meno; 120.000 bambini scoperti. La spending review ha ridotto il trasferimento di denaro a regioni, province e comuni: a cascata, tutti i servizi sociali ne hanno risentito. “Il fondo nazionale per le politiche sociali – spiega Antonio Nocchetti, presidente di Tutti a scuola – si è andato via via restringendo. Negli ultimi due anni del governo Prodi oscillava tra 1 miliardo e 800 milioni di euro e 1 miliardo e mezzo. Poi con Berlusconi si è ulteriormente abbassato a 700 milioni. Finché quest’anno la Conferenza Stato-Regioni ha rigettato la proposta del governo Monti: era 187 milioni”. Insomma non arrivano i soldi. E nella maggioranza delle scuole resta scoperto il ruolo dell’assistente materiale che aiuta i bambini e i ragazzi in difficoltà nella gestione pratica delle ore di scuola: li accompagna al bagno, li cambia, li aiuta a mangiare.

Ma chi sono questi assistenti? “La figura dell’assistente materiale è ambigua in alcune scuole”, racconta Nocchetti. “È una mansione che possono svolgere anche bidelli, dopo aver frequentato corsi che – notare bene la circostanza – sono però facoltativi. Se hanno acquisito questa specializzazione e si rendono disponibili, i bidelli hanno diritto a 30 euro in più al mese. Altrimenti i Comuni stipulano contratti con cooperative che mettono a disposizione personale. Questa seconda strada ha un costo maggiore, ma ha un effetto politicamente rilevante perché i Comuni danno così lavoro a decine, se non migliaia nei casi dei grandi centri urbani, di persone. Cioé si creano clientele. E guarda un po’, questa è la strada preferita. Per risolvere la situazione, basterebbe rendere i corsi dei bidelli obbligatori e adeguare i loro stipendi con due-trecento euro in più, una cifra non trascurabile”.

La sentenza 80/2010 della corte costituzionale ha stabilito che le ore di sostegno non possono essere limitate dalle risorse della scuola ma determinate dal bisogno del minore disabile: “Calcoliamo che a tutt’oggi oltre 10mila famiglie abbiano fatto ricorso alla magistratura per vedere riconosciuto il diritto allo studio e a una qualità di vita accettabile nel tempo scuola per i loro figli. In un paese normale la politica se ne sarebbe accorta. In Italia no”. Se la disabilità non è supportata, spiegano molti genitori di ragazzi con deficit, diventa un peso. Altro che una “risorsa che stimola gli insegnanti e gli alunni” come si predicava nel ‘77, quando furono abolite le classi ghetto, le famose “differenziali”. Senza contare che sporchi di cacca o sangue, i bimbi e i ragazzi disabili sono due volte diversi, marchiati, mortificati. La puzza che arriva dai loro pannoloni non cambiati è l’odore dell’ipocrisia che ci racconta come un paese “civile”, crisi o non crisi, non dovrebbe pagare chi – tutto il giorno, tutti i giorni – fa molta fatica a vivere.

di Silvia Truzzi

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