La pandemia è un’occasione per ripensare alla vita delle persone con disabilità

“È arrivato il covid ed è stato un colpo non indifferente. Non ci si può più abbracciare, toccare. Non ci si vede più, si comunica via Skype e Whatsapp. Durante il lockdown c’è stato un momento di cosiddetto panico da impossibilità fisica, anche se il rapporto di reciproca alleanza con gli operatori, gli educatori e il coordinatore è stato positivo”.
La mamma di Luca, un uomo di 32 anni affetto da tetraparesi spastica e che ha vissuto in un “gruppo appartamento” convenzionato con l’azienda sanitaria di Padova, commenta così i mesi di emergenza sanitaria. “Poi, sempre questa primavera, siamo passati alla fase due”, continua. “Potevo andarlo a trovare. Ora la realtà è più problematica per via dell’aumento dei contagi. C’è stato un focolaio in una comunità, quindi sono stati assenti diversi operatori… E non c’era personale sufficiente a gestire le varie realtà. Circa due settimane giorni fa mi hanno chiesto se ero disponibile a portare a casa Luca perché non sono in grado di garantire le presenze. Inoltre le strutture sono ancora chiuse: niente visite né rientri in famiglia”.
Luca è dovuto quindi rientrare in famiglia: anche se non per sua volontà, sia lui sia sua madre ne sono contenti, nonostante le difficoltà dovute alla riorganizzazione del ménage domestico. Ma gli altri ospiti delle residenze socioassistenziali e sociosanitarie italiane – 273.316 secondo i dati riportati nel rapporto del Garante per le persone private della libertà del 2018 – chissà per quanto tempo ancora non potranno incontrare parenti e amici.

Residenze isolate
Come previsto dalle disposizioni inserite nel dpcm del 18 ottobre 2020 e confermate nel successivo dpcm del 3 novembre, per contrastare il rischio di contagio da covid-19, infatti, gli accessi dei visitatori alle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) sono limitati ai casi indicati dalla direzione sanitaria della struttura, che è tenuta ad adottare le misure necessarie a prevenire possibili contagi finché non sarà finito lo stato di emergenza.
È più difficile da verificare quello che sta succedendo nelle residenze di natura sociale o socioassistenziale, come le comunità alloggio o i gruppi appartamento, perché la loro gestione spesso dipende da regolamenti interni. Ma l’orientamento generale resta quello di un divieto di contatti con l’esterno.
La rete residenziale dedicata alle persone con disabilità (che è di competenza regionale, salvo alcuni criteri comuni definiti a livello nazionale), è una realtà molto complessa da monitorare: sia perché manca una sistematizzazione dei dati sia perché ci sono molte differenze a livello regionale sull’autorizzazione e la convenzione delle strutture con le autorità sanitarie regionali (l’accreditamento), che seguono standard e criteri diversi. La regionalizzazione delle procedure ha prodotto anche un sistema di classificazione dei servizi abitativi frammentato in una molteplicità di tipologie che sono solo parzialmente coincidenti e comparabili.

La sanità è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia o infermità
L’offerta di assistenza residenziale per persone con disabilità non è quindi completamente omogenea sul territorio nazionale, e spazia dalle strutture a connotazione prevalentemente sanitaria e assistenziale, finalizzate quindi principalmente alla cura e alla riabilitazione (le Residenze sanitarie per persone con disabilità, Rsd), ai servizi di natura sociale o socio-assistenziale, come le comunità alloggio e di tipo familiare o i gruppi appartamento, il cui obiettivo è più orientato alla promozione dell’autonomia e della vita indipendente.
La scelta del governo e, conseguentemente, delle regioni, risponde all’esigenza di tutelare la condizione fisica degli ospiti. Ma la “salute” di una persona non coincide con la “sanità” del suo corpo, come ha riconosciuto l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che la definisce uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia o infermità” .
Le fortissime limitazioni all’accesso degli esterni alle strutture residenziali dovrebbero salvare gli ospiti da un’ecatombe come quella a cui abbiamo assistito pochi mesi fa nelle Rsa, ma la limitazione delle relazioni sociali e della libertà di movimento di chi in quei luoghi ci vive, quale impatto avranno sulla salute?
Tutelare la “sanità” del corpo non dovrebbe essere in antitesi con la promozione di altri diritti, principalmente di inclusione nella comunità e di autodeterminazione, riconosciuti nella Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
Ma nelle strutture residenziali il processo di empowerment personale è limitato, visto che la responsabilità del rapporto di cura difficilmente è condivisa alla pari tra chi elargisce le prestazioni assistenziali e/o educative e chi le riceve. Sono gli operatori e/o educatori, i dirigenti o direttori della residenza, la regione, lo stato a essere garanti della salute degli ospiti: quindi il potere decisionale dei singoli rispetto alla gestione della propria vita e delle proprie relazioni ne risulta fortemente ridotto.

Ridiscutere il sistema
La natura stessa della residenzialità in una struttura andrebbe quindi messa in discussione, in quanto mette a rischio uno dei princìpi contenuti all’interno della Convenzione ovvero il rispetto per l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone sia nell’ordinarietà sia nell’emergenza.
Forse questa crisi può diventare un’occasione per pensare politiche differenti, che rispettino e promuovano il diritto per le persone con disabilità di scegliere il proprio luogo di residenza e con chi eventualmente vivere, senza essere obbligate a una particolare soluzione abitativa, come sancito nell’articolo 19 della Convenzione. È in questa direzione che si orienta anche “Iniziative per il rilancio. Italia 2020-2022”, il documento prodotto dal comitato di esperti guidato da Vittorio Colao, consegnato alla presidenza del consiglio lo scorso giugno. Nel rapporto viene chiaramente esplicitata la necessità di adottare un approccio basato sulla domiciliarità dell’assistenza, per mantenere i legami sociali e proteggere sia l’individuo sia la comunità. Si raccomanda inoltre “la costruzione di un’alternativa al ricovero in Rsa e Rsd tramite progetti terapeutico-riabilitativi individualizzati e di vita indipendente”.
Più recentemente il ministro della salute Roberto Speranza ha istituto una commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana che favorisca un’efficace transizione dalla residenzialità a forme di assistenza domiciliare. Finora però ciò che è scritto sulla carta non corrisponde molto alla realtà.
Attualmente la presenza a casa delle persone con disabilità, anche adulte, spesso coincide con la delega della loro assistenza alla loro famiglia di origine. Lo sanno bene tutti quelle e quei caregivers familiari (ruolo che in Italia è svolto prevalentemente dalle donne) che durante gli scorsi mesi di lockdown hanno dovuto fare i conti con i tagli dei servizi assistenziali e socioeducativi e si sono trovati da soli a fronteggiare tutto il carico del lavoro di cura. Un “affare” delegato allo stato o alle famiglie. È questa la teoria dominante sulle persone con disabilità di cui purtroppo tuttora è pervaso la sensibilità comune a tutti i livelli, quella istituzionale compreso.
Occorre quindi considerare le cittadine e i cittadini con disabilità non più solo come oggetti di cura e restituire loro la piena responsabilità della gestione della propria esistenza. Affinché si realizzi questo, ciò che serve sono sostegni e strumenti per permettere a ciascuno di vivere dove e come desidera. Dagli ausili tecnologici che facilitano l’autonomia personale alla promozione di reti informali di sostegno che affianchino i supporti istituzionali, come l’associazionismo o i percorsi di cohousing o di vicinato solidale. Le strategie da mettere in campo possono essere molteplici. L’obiettivo però è uno: rendere le persone con disabilità protagoniste della loro vita.

di Adriana Belotti, psicologa 

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