Kiefer Sutherland: salvo il mondo grazie al mio bambino autistico

Le conseguenze delle nostre azioni credo abbiano ripercussioni a migliaia di chilometri da noi. Le distanze non esistono.
Papà non c´era mai sono molto legato a mia madre. Faccio il suo stesso lavoro e adesso ho capito tante cose, ci siamo ritrovati.

MADRID. «Papà mi ha dato ottimi consigli nel lavoro, pessimi nella vita» spiegava qualche anno fa. Oggi Kiefer Sutherland, 45 anni, è un figlio d´arte sereno, e una delle star televisive più pagate (nel 2009 550mila dollari a puntata per 24, più di Hugh Laurie per Dottor House). Da Jack Bauer, salvatore del mondo, passa al ruolo di un eroe familiare, non meno coraggioso. In Touch la nuova serie che debutta il 20 su Fox, interpreta Martin Bohm, padre vedovo (ha perso la moglie nell´attacco alle Twin Towers) addetto ai bagagli dell´aeroporto JFK di New York con figlio autistico, Jake (David Mazouz). Un rapporto di muto amore: bellissima la scena in cui sale su un traliccio, sotto il diluvio, per raggiungere il bambino ossessionato dal numero 318. Queste tre cifre misteriosamente (inutile dirlo, nella puntata pilota la storia t´ipnotizza ma non capisci niente), uniscono persone diverse nel mondo: un uomo che ha perso il figlio a Brighton, un ragazzino in Iraq e un´aspi! rante cantante in Irlanda. Nel cast Titus Welliver, Gugu Mbatha-Raw, l´assistente sociale, Danny Glover, professore convinto che Jake non sia autistico.
Completo blu con fazzoletto candido piegato nel taschino, stivaletti da rodeo, un bicchiere di Coca Cola in mano, Sutherland spiega in un albergo di Madrid, prima del red carpet con bagno di folla, come questa serie «sfacciatamente emotiva» creata da Tim Kring (Heroes, Crossing Jordan) lo abbia colpito al cuore. «Non volevo più fare televisione. Girerò il film ispirato a 24 e pensavo di non prendere impegni, ma la sceneggiatura di Touch mi ha conquistato. C´era tutto: il rapporto padre-figlio, l´idea un po´ magica che i numeri ci guidino, il senso del destino, la spiritualità. Sono convinto» dice con aria serissima «che siamo tutti connessi, che le conseguenze delle nostre azioni abbiano ripercussioni a migliaia di chilometri di distanza da noi, che gli intrecci della vita siano legati da fili misteriosi. Se aspetto un ascensore e non arriva entro un certo numero di minuti non lo prendo più». Jack Bauer era muscolare, Martin riflessivo ma spinto dalla disperazione! . «Non si può paragonare Touch con 24 ma i protagonisti hanno molto in comune: combattono per le cose in cui credono e hanno un grande senso della giustizia. Però la struttura di Touch è diversa, sono tredici episodi chiusi con un inizio e una fine. Con la vita che facciamo è complicato seguire il filo di puntata in puntata. Stanno già scrivendo la seconda serie e ci sarò. Faccio anche il produttore esecutivo, mi sento un po´ il road manager di una band, ma mi piace soprattutto suonare».
Una vita in altalena, l´alcol, il carcere e la resurrezione, due matrimoni falliti alle spalle, Sutherland jr ha l´aria di un ragazzo cresciuto che ha rimesso insieme i pezzi. Anche grazie alla paternità. «Io ho avuto la fortuna di accompagnare a scuola mia figlia, di poterle leggere un libro prima che si addormenti. Leggendo lo script ho pensato alla fatica che fa quest´uomo a stare accanto al bambino con cui non riesce a comunicare, che non vuole essere toccato. Un impegno commovente: sa che le dinamiche tra loro non cambieranno significativamente ma si alza con la voglia di fare... Se mi guardo indietro e ripenso alla mia "carriera" di padre ci sono stati giorni in cui non ero così. Non finisci mai di essere genitore, finché muori: ne parlavo poco tempo fa con mia figlia, che ha 24 anni». Invece, suo padre Donald Sutherland com´è? Fa una lunga pausa: «Non ho avuto un rapporto con lui fino a 17, 18 anni. Lo vedevo solo a Natale. Io e la mia sorella gemella siamo c! resciuti con mia madre, con cui ho avuto un rapporto straordinario, attrice teatrale che mi portava con sé quando recitava. Mio padre lavorava tanto, non c´era mai, è stato più difficile. Ora che faccio lo stesso lavoro lo capisco meglio e ci siamo ritrovati».

di Silvia Fumarola

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