La voce di un bambino senza voce suggerisce a due donne il mestiere di vivere

TuttoLibri. Una storia di autismo

Non volevo scrivere un libro sull'autismo. Non ancora. Sono una neuroscienziata che scrive romanzi e a tutt'oggi sappiamo - con imbarazzo e frustrazione - ancora troppo poco sui meccanismi neurologici alla base dell'autismo.

Ho consultato I principi della neuroscienza, il testo faro, la bibbia della neurologia dei miei studi universitari ad Harvard negli anni '90, e l'autismo non viene nominato. Neppure di sfuggita. A dire il vero, non se ne trova traccia in nessuno dei miei testi di studio dell'epoca. La corrente ricerca sull'espressione genica, la neurochimica, la neurofisiologia e sui circuiti è ancora indietro, poco chiara, poco conosciuta.

L'autismo nel 2014 è ancora principalmente nelle mani della psichiatria e della psicologia, per quel che concerne le definizioni e il comportamento: come organizziamo i sintomi? Come li chiamiamo? Come li gestiamo attraverso i cambiamenti del comportamento? Gli psichiatri prescrivono medicine inadeguate. Gli psicologi ricorrono all'Analisi Comportamentale Applicata.

Il nostro grado attuale di comprensione dell'autismo si limita soprattutto alla discussione di comportamenti ristretti e ripetitivi e dei deficit nella comunicazione sociale. Così, come neuroscienziata non ero affatto pronta a scrivere una storia sull'autismo. Ma, evidentemente, la storia era pronta per me.

Nel 2000, mia cugina Tracey ed io eravamo entrambe in dolce attesa. Lei aspettava due gemelli, un maschio e una femmina, e io una bambina. Siamo diventate madri nello stesso periodo, e questo ci ha avvicinate molto. Stavamo insieme nelle rispettive cucine, salotti e giardini condividendo la nostra stanchezza e la nostra felicità, fantasticando su cosa avrebbero fatto i nostri figli. Immaginavamo ogni cosa. Le recite scolastiche, le partite di calcio e di football, il ballo di fine anno, il college. Naturalmente, le nostre figlie sarebbero state ognuna damigella d'onore al matrimonio dell'altra. Sarebbero stati tutti belli e brillanti, il nostro orgoglio e la nostra gioia.

Ma poi qualcosa andò storto con il figlio di Tracey. All'inizio lei pensò potesse essere sordo. Lui non reagiva quando lei gli parlava. Eppure poteva sentire, questo risultò poi chiaro. Non parlava come sua sorella o come mia figlia. Le dissi di non preoccuparsi. I ragazzi spesso sono più lenti delle ragazze nello sviluppo del linguaggio. Lui non giocava con o come le nostre figlie. Voleva guardare e riguardare il cartone di Barney, infinite volte. Voleva stare da solo.

Dalla cucina, dal salotto o dal giardino di casa mia o di mia cugina, assistevo a quel che stava accadendo poco più in là incredula, spaventata, disperata. Vedevo le nostre bambine imboccare senza sforzo la direzione che avevamo sognato mentre il figlio di Tracey si scontrava con ogni singolo passo dello sviluppo, con esiti ogni volta diversi, inaspettati, inimmaginabili. Io ero là per ogni intervento, per la terapia ABA, per gli esercizi a terra, per le diete speciali. Qualunque cosa ci desse la speranza di riavere il bambino che avevamo sognato.

I nostri figli adesso hanno 12 anni. Il figlio di Tracey è autistico, e ancora non parla quasi per niente. Non può giocare a football, prender parte alla recita scolastica, o dire «ti voglio bene». In 12 anni, la neuroscienza non ha fatto un passo in più nella cura dell'autismo, per cambiare la sua condizione. Ma Tracey è cambiata. Noi siamo cambiati. Dalla cucina, dal salotto o dal giardino di casa, ancora osservo e provo momenti di rabbia e dolore, ma la disperazione è passata. Più spesso ora avverto un senso di pace e di accettazione, e vedo mia cugina concepire nuovi sogni per suo figlio, diversi che quelli che nel passato avevamo condiviso per i nostri bambini, ma lo stesso pieni di contenuto, di orgoglio, e di gioia. Dove una volta c'erano terrore e sconforto, ora vedo e sento amore incondizionato.

Nel 2009 mi stavo recando da Cape Cod al Logan Airport per un evento legato alla promozione del mio libro Perdersi a Denver. Avevo appena firmato un contratto con la Simon&Schuster che mi obbligava a scrivere due libri ed ero preoccupata perché non avevo la minima idea di quale sarebbe stato l'argomento del secondo dei due (avevo già cominciato a scrivere Ancora io). Sul sedile posteriore chiusi gli occhi e mi misi a riflettere. Potrei anche essermi addormentata, ma non credo.

Stephen King dice che «le storie sono oggetti che uno trova». Lui crede che esistano già e che il compito dello scrittore sia di farle uscire a colpi di scalpello come si fa per estrarre un fossile dalla terra. Elizabeth Gilbert sostiene che le idee creative non vengono da noi ma attraverso noi da una magica fonte divina.

Dopo quel tragitto verso l'aeroporto, vedo la verità lampante di queste affermazioni. Al mio arrivo al Logan, sapevo che il mio libro sarebbe stato sull'autismo. Sarebbe stata la storia di un ragazzo autistico impossibilitato a esprimersi che muore a causa di una crisi epilettica. La storia di sua madre in cerca di risposte, e di pace. La storia di un'altra donna che sta cercando delle risposte sul suo matrimonio e sulla vita che davvero vuole. La storia della misteriosa connessione tra queste due donne che trovano le risposte che cercano attraverso la voce di un bambino senza voce. La storia avrebbe parlato di autismo, ma non di neuroanatomia o di genetica. Avrebbe parlato di tutte le vie misteriose che legano noi esseri umani, di come tutti meritiamo di sognare. Avrebbe parlato di negazione e disperazione, accettazione e pace. Avrebbe parlato di amore incondizionato. E si sarebbe intitolata Tre sassi bianchi.



 

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